Lettori cari,
vi lasciamo tra le liriche di Giuseppe Calendi raccolte nel suo libro INTROSPEZIONI pubblicato in self grazie a Youcanprint.
Buona lettura.
La Recensione a cura di Vincenzo Calò
Calendi è riuscito a tracciare minuscoli percorsi nel pensiero d’individui particolari che si avvicendano in diversi racconti, legati in fondo da turbamenti e condizioni morali che comportano vari episodi.
Il lettore ha a che fare quindi con alunni e insegnanti facinorosi, per istruirsi in maniera alquanto bizzarra; per poi venire scaraventato su una favola ad alta tensione, e ridestarsi come ad assistere a un congresso dagli sviluppi teorici.
L’autore inizialmente con una poesia omaggia un essere al microscopio nefasto per la natura rifiorente in ogni città dell’oramai sperduto occidente, il punteruolo rosso, un essere orgoglioso di diffondere danni originari di altri mondi, con la costanza tale d’annientare delle tradizioni sempre più piantate in asso; da significati complessi, che non si ha la pazienza di chiarire, e che pertanto vengono ritenuti ininfluenti.
Leggendo sei costretto subito a identificarti in un insegnante alle prime armi magari, dedito ai virtuosismi del pensiero, evidentemente pigro da considerare una forzatura il lavoro da compiere di lì a poco, qual è affrontare un ammasso di ostacoli decretato dalle mancate conoscenze; dal disagio che se non lo si dichiara modellerà le sue vittime per sempre, infiammabili con l’attualità pervasa dal delirio cronico.
Le citazioni sono alte, incisive… scolpiscono peraltro la figura di una Lei sin troppo emancipata, ossia della direttrice scolastica che si mette a verificare il niente in un niente, prima di lasciare spazio al prof con le nozioni storiche da riprendere per mezzo di riferimenti astrusi, per il bene delle nuove generazioni di cui vanno ricordati i nomi dalla a alla z attestandone le presenze, per passare alla propria Storia come il più bravo in qualcosa, e non importa se quel qualcosa sia futile.
Giuseppe Calendi pone delle riflessioni sul negativo, induce con saggia leggerezza a spogliarci per dell’umana autenticità, a costo d’intuire una guerra tra chi sapendola lunga si è smarrito, da cui scorgi quanto siano ridicoli perlopiù i subordinati che tentano addirittura di sedare le sorti dei primi, trangugiando senza far caso dell’informazione disattesa per sempre; in un’epoca offensiva piuttosto che moderna.
C’è ancora quel tanto da inseguire, poco male, perché vuol dire che non siamo ancora morti… anche se si fatica a risultare indipendenti dalle mediatiche convenzioni, durissime da masticare, dovendo recuperarle per non concepire il peggio della solitudine, auspicando dunque dichiarazioni fintamente universali, con strumenti di riparo, che si ripropongono mostruosamente.
La putredine galoppante si può attenuare però al ricordo della ragazza che aveva piacere sempre di ricevere il precariato racchiuso in un tizio di nome Pat, che finito di mangiare invece si concede più che volentieri all’evasione sensoriale, necessariamente in segreto, perciò in guerra con uno Stato proibizionistico… una soddisfazione rimandabile stimando il deterioramento delle cose intorno, come se certi di alimentare relazioni sociali successivamente, con l’appetito che non conosce soste, lungi dalle atmosfere in corso d’opera.
Nient’altro che una sensazione proliferante presto sottaciuta, da inseguire semmai ammirando in massa trasparenti invocazioni verso il cielo, di una libertà eternamente sopita, da parte di un esponente dell’aldilà avente le sembianze di Alex, l’uomo di strada a cui gli auguri per incanto di viaggiare senza badare a spese quali la solitudine; estraniante dunque l’infedele convinto delle sue azioni, che magari si destreggia come portantino, auspicando prima o poi di primeggiare alla grande in bici su cime impervie.
Pat infatti pregustava la bellezza di relegarsi a uno scopo, tanto piacente quanto traballante, non riuscendo a intendere la sportività per ogni destino che si lascia dunque segnare, ridimensionando figure da sogno terribilmente, che non vedono l’ora di fermarsi ragionevolmente, senza dare retta alle offese di coloro che possono solo assistere, inesprimibili; come se incapaci di accorgersi che per essere propensi alle novità occorra muoversi in modo anormale.
Con Calendi si è alla ricerca di un qualsiasi preservatore della curiosità, adescabile con inviti innocui, per distogliersi dalla rassegnazione dovuta d’affetti scontati che scompaiono per emozionare, nel vuoto della nobiltà d’animo che aspetta d’essere rilevata anche da inflessibili forme d’aristocrazia; lavorando “serenamente”, come un governante in una proprietà sin troppo scomoda per dare adito a delle speranze…!
Le premesse c’erano tutte per fare il salto nella diavoleria dell’uomo devastato dalla gelosia che si può tragicamente nutrire per il bene di una donna che non c’è più, e vivere una vicenda contorta ma seducente; intuendo il peggio che si possa subire innocentemente, cioè reputarsi il bersaglio, ossia una e più vittime da mirare senza il benché minimo tentennamento, con l’aria che si ripercuote.
Succede che per rivendicare l’immagine della persona amata si debba uccidere a ripetizione, che il racconto successivamente cambi per identificarti in una forma di disperazione… schiarendo l’animo di uno che piuttosto è in procinto di ripartire da zero, con la vita che, se tenuta stretta in pugno, ti prepara sorprese inaudite, da cogliere con tutto il coraggio che ti sogni per non fare la fine dei mostri con cui per forza ci si rapporta, e rivederti così ad aspirare alla bellezza che traspare nell’ideale compagna di viaggio, fuori dal comune, come una droga.
E magari con la scaltrezza nell’insegnare a rispettare la spontaneità degli eventi, senza tralasciare alcun aspetto per centrare l’obiettivo, orgogliosamente e in maniera metodica; come se si rinascesse ogni volta, sospinti dall’alto per una questione di principio, al fine di esaltarsi sorprendendo con l’ascolto di anime maciullate, sul punto d’essere del tutto scaricate, elaborate certamente, follemente, avendo un volto da cui traspare l’interrogativo a proposito del ruolo d’assumersi.
E’ impossibile polemizzare quando combaciano dei sensi di trasporto, in un mezzo pubblico che comunque contiene qualsiasi carattere che induce a tacere per concentrarsi sulle personali manie, e uscire poi magicamente fuori, a riscoprire l’amore che rende bello il brutto, di colpo!
Bisogna fare una scelta di vita, all’istante, nella collettività che urta dovendo ribattere per non risultare maleducati, nell’attualità che si riempie di persone mediocri che la svuotano.
E chissà se ciò sia vero, magari lo si afferma per non avere più a che fare con un tizio scontroso, intento ad aggredire per difendersi, perché ne va di un ideale come pochi, che viene annullato con l’indifferenza nei riguardi di un male civile, incisivo fondamentalmente.
Come quello che ha colpito Marco Pantani, una figura da consacrare sempre e comunque, derivante da un moto d’azione come di reazione che intrattiene la massa tanto da non poterne più fare a meno, assistendo al margine di un percorso la dubbia gioia di stare insieme per soddisfare desideri che si rivelano similitudine, provocati per trascinare.
Capita dunque di calarsi nell’inferno del razzismo per vendetta, a scapito di coloro che non soffrono per andare avanti, cioè pensando di svolgere un compito senza discuterci, facendo attenzione, ma solo dopo, a quello che ne scaturisce.
In “Introspezioni” il Progresso va suggellato d’altro canto, collocando delle pedine di carne e fiato in posizioni che non suscitino fastidio, mediando significati, senza prevalere divinamente, in tesi ingannevoli al momento che serbiamo l’urgenza di reputarci normali; al cospetto di un sapere miserevole in sostanza, non avente appigli né tematiche idonee, da distogliere riunendo le curiosità inerenti alle leggi della natura, con discorsi singolari ma concreti, a proposito dell’umanità che complessivamente, ponendosi dinanzi all’esistenza di una sola persona, volge all’immensità.
La coscienza si rigenera prima o poi, per qualsiasi mente che si può considerare superlativa se esposta a delle opinioni mirate su cosa siamo in grado di compiere per convincere; anche se sentirsi al centro dell’attenzione è una malattia che l’autore rende simpatica, lungi dai posti per sedarla, procedendo magari in povertà materiale, in balia dei cenni di un malessere sofisticato, credendo di appartenere a una situazione interamente personale.
La certezza assoluta di ritenersi unicamente passivi a una sensazione, come quella d’essere controllati ovunque, si frammenta, mentre si prova a esaltare la specie umana così tanto da esaurirla.
Calendi giunge alla conclusione che l’indipendenza serve a patto che ci si concentri individualmente sulla difficoltà d’emergere, da smussare percependo e facendo semmai il contrario di ciò che una stagione della natura riconosce, così d’attribuire un merito a coloro che sono alla nostra altezza per non dire sublimi; come a far notare ancora una volta di stare in forma giusto per chiudere gli occhi e sognare, stilisticamente ferrati solo quando si rientra in società per tranquillizzare quelli che rimangono incantati sul fatto che niente è cambiato.
Anche se per avere successo si deve compiere sul serio un gesto straordinario, qual è spaziare a tutti gli effetti, col coraggio d’imporre delle mode autentiche.

di Giuseppe Calendi
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‘Introspezioni’, piccoli viaggi dentro la mente di personaggi che si alternano in varie storie, nella condivisione di emozioni e stati d’animo che caratterizzano situazioni diverse. Una classe turbolenta in una scuola grottesca, una fiaba thriller, un convegno scientifico e altri contesti che possono, in egual misura, rappresentare e racchiudere in sé gli aspetti di una genuina quotidianità.