“Ammessi al Paesaggio”, di Gianni Marcantoni [Recensione]

Amici Lettori

oggi vi proponiamo la recensione di una raccolta poetica dal titolo AMMESSI AL PAESAGGIO, scritta da Gianni Marcantoni e pubblicata con Calibano Editore.

Vediamo insieme di che si tratta!

AMMESSI AL PAESAGGIO

di Gianni Marcantoni

Calibano Editore

284 pagine – 15 euro

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Le poesie e i poemi contenuti in “Ammessi al paesaggio” nascono da un’elaborazione interiore complessa e personale e s’interrogano, senza compromessi, sulla realtà, sull’esperienza e sui loro molteplici significati. Partendo anche da oggetti e situazioni quotidiane, Gianni Marcantoni propone in versi limpidi una poesia corsiva e corsara, originale nel suo stagliare su immagini classiche metafore inattese. Il linguaggio diretto non disattende una ricercatezza ricca ed evocativa, che coinvolge il lettore emozionandolo. Opera sesta, mostra la piena maturità dell’autore nel suo inesausto progetto di ricerca poetica.

Recensione a cura di Vincenzo Calò

La nascita dell’essere umano rimediabile tra le mura
domestiche (tipica del tempo che fu, di quando l’umiltà del nucleo familiare
veniva considerata propositiva a dir poco) purtroppo si complica
all’inverosimile, sortendo un dramma lacerante… un fatto tragico, da esporre
come tanti altri che caratterizzarono la realtà del Paese negli anni ’30; sotto
l’etereo distante, colmabile però immaginando d’avere un potere come quello di
espandersi usufruendo del senso del tatto, e raccogliere così la persona cara.

“Non chiedo di essere
perdonato, e non chiedo nemmeno di essere tanto amato. Non credo che chiedere
mi sia mai stato realmente concesso”.

Marcantoni agisce accompagnato dai suoi dolori ossei,
sollevato dalle cose che tacendo ridestano inutili, leggiadri movimenti… già,
il tempo di muoversi piano e il senso di disorientamento occupa la sua memoria,
come a rendersi incapace di dipendere da una persona alla fin fine.

Il poeta focalizza il sempre di una passione, consapevole di
un’occasione non colta, come quella di esistere difettando liberamente, in
solitudine, fino a colmare il senso di vuoto col suo essere vacante, senza
alterare l’umanità a livello spirituale.

L’integrazione si riferisce dunque a dei soggetti che non ci
sono più, mortalmente aggrediti, mai ripresisi dalla superbia e dalle
ingiustizie, e cioè da gesti realizzati a scapito di anime innocenti, che non
sapevano cosa volesse dire reagire, e addirittura anche per rimediare alle
proprie debolezze… ebbene, il desiderio di raccoglierle in un contesto
prettamente territoriale significherebbe farle rivivere, ma stavolta
dignitosamente, allo scopo di recuperare l’opportunità d’esprimersi, e ricavare
naturalmente i requisiti per esistere, potendo finalmente crescere nel rispetto
delle regole, piacevole purché quest’ultime siano chiare.

Per Marcantoni questo darci alla luce andrebbe salvato,
perché è conforme all’unica forma di preghiera in circolazione oggigiorno,
ciononostante il poeta s’attribuisce delle colpe, non volendo immaginare che
una benché minima richiesta da parte sua passi in rassegna.

Un indizio esistenziale s’illumina in particolare, e lo si
può scorgere dall’alto verso il basso, essendo distanti, incapaci di definirci
col buonsenso nel nome di un poeta come Gianni, che comunque riesce a intuire
la quotidianità in un cenno d’intesa.

Naturale e silenziosa in alternativa, la gustosa
provocazione vitale non si fa assorbire dalla sapienza dell’autore che assiste
in caduta libera agli eventi che lo formano, per poi brillare semmai grazie al
tempo dell’amore, da personificare quando le luci oggettivamente si spengono.

L’uomo incanta fortissimamente, e cioè attualmente, essendo
stato spremuto dalle illusioni, consapevole però di certi momenti che
torneranno affinché ci si possa muovere rinfrescando così delle buone nuove dal
principio.

Secondo Marcantoni il genere umano attende una svolta privo
di uno slancio emotivo, un po’ come a volere osservare degl’insetti intenti a
stabilirsi in un determinata collocazione con una fragilità comprovabile.

Eppure Gianni dichiara che non intende fermarsi ancor prima
di realizzare qualcosa, alludendo alla sorte purché essa accenni un volo in
conclusione, in un tempo svanito nel suo animo senza poi riapparire, deliziando
e misurando così uno e più lati oscuri.

Il maltempo risulta mostruoso, bucato da tenebre in
movimento, profonde, ciononostante la linea tra l’aldilà e l’aldiquà non smette
d’incantare, seducendo il poeta che la desidererebbe da perfetto egoista,
imprigionata nelle stesse condizioni di un tenero volatile, in un valore
assoluto.

La percezione viene meno essendo curiosi di sapere come si
generi un effetto sonoro, talmente moderno da sollevare quest’umanità che si
deve ritenere immortale, ma assoggettata a degl’indizi marcabili da strumenti
perlopiù inaccessibili.

A dire il vero la desolazione è lacrimosa, arreca splendore
alle anime che si distaccano definitivamente da corpi in attesa di veritieri
accecamenti, quelli che schiariscono alti e bassi d’umore svalutando persino i
raggi solari.

Il tacere è proporzionato all’unica testimonianza di vita
atta a disgregare principalmente gli esponenti di cotanto mistero che
Marcantoni armonizza con parole imbattibili, che accolgono l’autore stesso a
tal punto da scorgere serenamente la fine di una vita.

Siamo forse senza una divinità da pregare, e quindi pronti a
inabissarci dentro le illusioni, socchiusi i rubinetti alle fonti di vita, dove
si va a rinfrescarsi una volta finito di giocare a stabilire un vincitore e un
perdente, assistendo al tempo che scorre.

Un fare notturno, anonimo, circonda l’esistenza, e la
solitudine avanza tra boccioli di sentimenti da sfiorare, possedendo
ambiguamente il senso del tatto, a cui si accede sfidandoci ripetutamente a una
caccia al tesoro.

L’illuminazione più incomprensibile viene segnata difatti
dal più semplice gesto d’affetto, con la fine di un giorno che così meraviglia
tracciando vie pericolose, intensificando soluzioni penetranti, resistenti al
tempo.

Dopo si aggiunge l’umanità, il fatto di sedare gl’istinti
ogni volta quantomeno per tutelare ciò che di solito sappiamo offrire,
accerchiando una sorta di principio d’allarme come a far festa e riflettere
infine sulle morti altrui.

Traspare la perduranza di un’asprezza gocciolante sul genere
umano, ricorre della struggente rigidità alla lettura di questi versi come a
stimare l’anonimato di svariati soggetti infranti.

“Basta un silenzio a
risvegliare queste effimere danze, basta questo passo per dimenticare da quale
direzione io sia arrivato, e per conto di chi altro me ne andrò”.

Colui che scrive qui sembra durare spaziando appieno in un
respiro che manca, riaccendendo mute osservazioni al cospetto di parole
spodestate dalla loro stessa visibilità.

Nel frattempo, pian piano ogni strumento diventa un fremito,
un fare sistematico accerchiato dalla natura saggia, fittamente riconducibile a
dei peccati oramai ininfluenti.

Per risolvere dei problemi occorre andare oltre, in un luogo
incredibile, sospinti da una ragione sovrumana per intendere la morte e
alleviarla.

La speranza incornicia l’inimmaginabile, l’idea di
sconvolgere con viva ingenuità un gigante sbrogliandogli le viscere.

“Un terrore ci
possiede da troppi secoli fin da dentro le oscure caverne, e le tue sicurezze a
poco sono bastate in tutto questo tempo per farci esistere davvero come uomini.
Ma forse l’uomo guardando in alto – sempre perduto in sé stesso ha solo sentito
l’eco della propria voce, e non invero il sole, non i sentieri finiti in un
fuoco mancino, non i continui passi che hanno invertito rotta, tornando alle
mezze facce delle ampolle, seppellite fra la neve-lingue-rudimentali, e sciolte
in una fiala di raggelato succo esistenziale”.

Il terrorismo divampa in noi da tempo immemore; quindi è
probabile che l’umanità creandosi grandi aspettative non abbia fatto altro che
accusare un senso di vuoto, tale da rimanere incantata dal riverbero di
richieste che non provengono mai dall’esterno, con un vanto pari alla
possibilità di spegnere la più naturale delle fonti d’energia.

Si percepisce l’intento di comporre parole, silenziosamente,
in modo puramente manuale, determinando così un peso, e specie sugli affetti,
per niente passeggeri né falsificabili e tantomeno portatori di seduzione; al
tramonto di un vissuto ch’eleva la sensazione di far tutto tranne che rumoreggiare.

Il mondo, sputtanato, centra appieno i cuori della gente,
ossia di tutti quelli che di solito necessitano di scegliere l’insieme da
supportare senza suscitare la benché minima rivoluzione… effettivamente a forza
di discutere sul destino del pianeta Terra ci stiamo oscurando, d’illuminante
resta l’inasprimento della normalità che per giunta manca di compattezza.

“Ma nulla regna per
l’uomo che tanto ama salvarsi…”.

Indumenti consumati si pensa quasi di punire alla fine di un
vissuto, mentre delle aspettative vengono ingoiate con un’angoscia tale da
respirare mantenendo gli occhi aperti all’etereo disperso a causa di un pianeta
che non ci risparmia la memoria, in mancanza di attività colmanti gli attimi
all’anima; non concependo i misteri del buongusto, essendo conficcati magari in
residenze oscure dacché momentanee.

Marcantoni predilige la verità poetando argomentazioni senza
la pretesa dell’immortalità, in un volo quindi limitato dalla realtà e i suoi
strumenti di cessazione propria… ben lungi da un termine di possesso: una
dichiarazione da fare magari distaccandosi dall’immaginario, specie se
quest’ultimo pulsa per lo sguardo da ricambiare con l’amore che spesso e
volentieri si percepisce nell’assenza di chi ci sta a cuore.

Ecco che spesso e volentieri provando amore cogliamo
ingiustizie fuori dal comune…!

Si sta da soli per un briciolo di tempo che può impadronirsi
spiritualmente di un essere umano sequestrandolo, costringendolo a scrutare
l’incolta immaterialità.

Sta di fatto che il poeta si esprime, che la sensibilità
conta maggiormente quando qualcosa c’intimorisce. La purezza si manifesta
appieno per spirito d’unione.

Una massa popolare strabordante ma che teme di rifiorire non
riesce a respirare a pieni polmoni in effetti, e cioè in mancanza d’ideali.

Ci si rassegna a mirare il destino che, alquanto precario,
fuoriesce mestamente dopo averlo intascato mortalmente, dimorando in una forma
di tacito abbandonamento.

“E tu uomo di bassa
statura i versi non ti alzeranno, tu uomo di alta statura, i versi non ti
piegheranno. Possono solo condannarti talvolta, quando come chiodi entrano
nella testa e impediscono il movimento delle labbra; allora sarai nel paesaggio
infinito, sarai allora morto per colpa dei versi che ti avranno tradito”.

Con la poesia secondo Marcantoni si accede alla svalutazione
di soggetti protesi alla morte, come a spaziare in un colpo d’occhio,
ciecamente. I sentimenti vengono calati in una condizione di panico puro, a
conferma che la quiete si è tramutata globalmente in uno storico malessere.

La percezione olfattiva si allarga a seguito di
mostriciattoli aventi talmente sete da avvelenarsi, privi di destinazione.

Una terminologia affettiva si esaurirebbe da sé alla luce di
un nuovo giorno, legnosa e ubriacante, e difatti la memoria s’intensifica
evidenziando leggerissime lesioni su forme sporcate di quiete.

Rimangono cose inculcate, oscure a primo impatto, che
inducono agli stati di fermo la meraviglia tendente alla fisicità
dell’individuo da immortalare.

La pubblicazione di piccole storie private accentua il
principio d’assenza, che si sviluppa contribuendo all’aria che tira, che si
stanca.

Il tempo dunque va ammazzato esclusivamente in chiave
letteraria, riaprendo la voglia di vivere alle persone prossime alla cecità, a
degl’involucri d’eternità.

Ogni cosa si pone sullo stesso piano, sinceramente occorre
pazientare per mutare in positivo, e oggettivamente poco importa farsi sentire.

Successivamente ai corsi storici, del tutto personali, nulla
più si delinea per degli amori acclarati, trafitti da schegge evidenti,
derivanti da contenitori preziosamente ambigui.

Il poeta ingoia qualsiasi aspetto dell’amore che può provare
per una persona, eccetto quella voglia di contemplare il panorama mondiale, che
va riqualificata, più forte del riserbo.

Niente si oscura come l’umanità sul punto d’amare, col vuoto
che avanza sporcando indumenti a prova di sentimento.

“Ma cosa hai costruito
nel tuo tempo? E quanto ci hai messo? Era davvero così indispensabile tutto
questo? La vita è fatta soprattutto di cose inutili, di meccaniche, e di
ritorni, ed è quanto tu non mi avevi detto (né io te lo avevo mai fatto
capire)”.

Un insieme di suoni inonda un corpo estraneo se con
l’emotività non si concepiscono frantumazioni, le diversità che si accentuano
con un fare crudele, estremo.

Un amore circola nel poeta, inesauribile, ma è con la
reciprocità che si apre alla spontaneità dei gesti, alla quale si può
rinunciare, preferendo l’oscurità che l’immenso opportunismo alimenta.

La natura viene inquinata di continuo, e, imperturbabile,
riproduce delle colpe per esistenze da insaporire piangendoci sopra, sul serio,
senza far rumore.

L’armonia appartiene alle idee che cambiano evidentemente,
come a voler prendere in giro l’anima, con quella solenne quiete successiva alle
tempeste. Il silenzio rappresenta volgari intrighi, inducendo personalmente a
proiettare il pensiero sugli sviluppi di ogni singolo respiro… la più
deplorevole delle azioni!

In effetti veniamo a mancare sul serio una volta che le
illusioni diventano realtà inequivocabili, scatenando guerre di un desiderio
improponibile, come quello di perdurare in eterno.

La vita si conclude in una maniera del tutto convincente,
sublime, a dimostrazione di come l’integrazione terrena non presupponga la
considerazione dell’essere.

“Tutto è stato
stemperato nell’avanzo carpito dal seme di una betulla nata dai sospiri del
mondo, quel mondo che amava ascoltare i racconti fantasiosi dei pellegrini di
una volta, dei cavalieri morti sulle strade del sale. Ma non restano ormai più
ore da centellinare, così giriamo solitari, simili a due fiumi che combattono
ogni giorno per arrivare al mare, che navigheranno le rotte infuocate di un
sogno essenziale, prosciugato in un giaciglio colmo di consuetudini
momentanee”.

Il tormento spirituale si riferisce alla carenza di senso
per scalare asperità ragionevoli, che si definiscono maggiormente col passare
del tempo.

La sincerità, alquanto residuale, prova qui a riformarsi
senza far rumore, mentre giochi di luce peccano per principio.

Il corso degli eventi non appartiene alla memoria, e
rafforza aspettative nel fisico da erigere per dei confronti che si sviluppano
fino ad augurare di confermarli seppur in maniera precaria.

“E sono troppe le vite
tormentate, troppe le vite naufragate, disintegrate, occultate nelle isolate
galere; riprendiamo allora il nostro scettro, il mondo era nostro – nostro fin
da dentro al grembo materno. E non ancora un canto spaesato, non ancora una
maglietta indelebile con i nostri eroi stampati tra le glorie, o questa
ridicola platea sbilenca sopra cui il falso uomo astuto è annegato!”.

Tecnicamente, passione e competenza poetica sortiscono
l’energia ritmica alla forma del testo, rigorosa e raffinata, mentre
l’ambizione la si rileva da una ricerca a ritroso, che si rivela a tratti di
una lezione da dare.

Il pensiero sembra proprio dominare la complessità
espositiva, cosicché permane la parola letteraria. L’amarezza intimistica è di
una scrittura gergale, si rilassa specialmente tra i versi dei poemetti, come a
pregustare una discesa negli abissi mentali. La costruzione della struttura è dura, cupa, carica di tensione, come se
ci volesse a tal proposito una fisicità intrisa di sacralità.

V’è un dire poetico che non ammette finzioni, secondo un
autore garbato e malinconico, solito agli attraversamenti esistenziali,
inseguito da una verità, un’illuminazione più forte di ogni altra, incalzante.

Un emblematico coacervo di rifiuti sulla presenza umana
corrode l’emozione.

Il lettore ha modo di appropriarsi del valore profondo della
parola, come un nutrimento da curare e controllare, col ron ron esistenziale,
un elemento necessario per cogliere flash d’ispirazione e far scattare delle
occasioni.

Leggendo è come se ti ritrovassi incagliato tra sentimenti
profondi e ragioni inconfessabili, tra storie e destini che chiedono d’essere
ascoltati, grazie a un autore che mantiene una coerenza con grande lirismo,
essendo questi lento e avvolgente, e assumendo un tono intimo, malinconico,
dolente… ma anche fiero e arrabbiato.

Il poeta dosa bene follie e malinconie in una data
ambientazione, segno di come s’impara a dare il giusto peso alle parole… versi
dunque d’impianto teatrale, evocativi come un’opera d’arte, di contorsione
avanguardistica.

Testo teso, che non dà tregua ai significati di cui n’è
denso, privi di compiacimento… mai banale.

Qui non si cade nei sentimentalismi, alla luce di una
calibrata misura dei versi, in funzione catartica e salvifica, e quindi di
sottigliezze psicologiche, a fronte di un universo cupo, claustrofobico (ma
molto introspettivo)… addirittura sembra che si possano appurare dei diorami
assemblati per far capire a cosa si va incontro.

Dalla cura del dettaglio linguistico e poetico si determina
la presa di posizione su temi certi.

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