[Segnalazione] “C’è Vita sul Pianeta” di Silvia Pedri

Due idioti geniali 

 inciampano nell’amore,

 spaccano l’incantesimo del destino

e si ritrovano faccia a faccia con se stessi.

Amici Lettori,

vi segnaliamo con piacere il romanzo di SILVIA PEDRIdal titolo “C’è Vita sul Pianeta”: scopriremo insieme di che si tratta e gusteremo anche un succulento ed interessantissimo estratto!
Pronti? Alè!!!

C’E’ VITA SUL PIANETA

di Silvia Pedri

Antares Edizioni

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Da Milano a Buenos Aires e ritorno in una settimana, fine novembre 2017. Silvia è in viaggio, un viaggio né di lavoro né di piacere, è in missione per risollevare le sorti della sua vita. Si chiama Rivoluzione Solare Mirata ed è una pratica astrologica che consiste nel trascorrere il compleanno nel luogo del mondo in cui le condizioni astrali sono le più favorevoli possibili per l’anno a venire. Estremi mali…
Silvia non ama viaggiare. È stato un enorme atto di coraggio e un enorme dispendio di energie per lei attraversare il globo, da sola, superando più o meno fortunosamente e fortunatamente tutti gli ostacoli del caso. Al suo arrivo è distrutta e sconvolta. Forse questo la rende più aperta, ricettiva e sensibile. Però è anche vero che le energie sono molto buone, intense, dolci e favorevoli. Lei è inquieta e tormentata di carattere e di destino ma questa città le sorride da ogni angolo e da ogni persona. A volte le sembra di respirare poesia. A volte tutta questa poesia la spaventa. Come quando uno strano ragazzo, di stranezza affine e complementare, resta colpito, da non si sa che cosa, e la ferma per strada. E no sembra non ci sia scampo. Alla vita forse bisogna arrendersi. D’altro canto, chiedi chiedi e alla fine ti è dato. Sposti le montagne e i tesori li trovi. Che tesori sono, se sono tesori, poi è tutto da vedersi. Sconvolta e coinvolta, trascinata in questa buffa avventura, Silvia si lascia guidare ma deve tenere in conto diversi inciampi perché a camminare non è brava né abituata. Forse, anzi, sta facendo i suoi primi passi. D’altra parte anche il suo nuovo, aitante, sciolto amico ha un cuore claudicante e non solo. In fondo sembra che il destino abbia concesso e ordito una “prima volta” per entrambi. A qualsiasi età, la vita può dare una seconda o una terza o una ennesima possibilità. Poi, certo, bisogna sapersela giocare.
In soli due giorni insieme, succedono cose che cambieranno per sempre il destino dei due protagonisti. Passato, presente e futuro si rivelano e si intrecciano, sperimentando nuovi disegni.


L’Autrice 

Silvia Pedri è una libera esploratrice e comunicatrice. 

Frequenta temi spirituali con esperienza e padronanza. Gestisce un blog di crescita personale. Dipinge, fotografa, autoproduce ebook di romanzi e poesie, mp3 di musica e di meditazioni da lei create, e video in cui recita se stessa ed eventualmente canta.  

www.silviapedri.com


Breve Estratto

Segno di vita primo

Ecco, mi sono commossa. Ha degli occhi così belli. Mi sta guardando. 

Mi ha offerto un piatto di pesce e insalata. Non avevo neanche fame. Non ho mai fame da quando sono in questo paese. L’aria è nutriente. Lui è seduto davanti a me. Ha degli occhi così belli. Dolci. Brillanti. Vivi. E ha messo la mia musica preferita. 

Non so neanche come faccia. È veloce. Tutto accade veloce, semplice. Mi rendo conto solo mentre accade ed è già accaduto. E in un attimo la parte più poetica del mio passato, condensata in note musicali, e la parte più poetica del mio presente, l’unica cosa che è il mio presente, qui, di fronte a me, sono insieme, con me, stanno avvolgendo i miei sensi, la vista, l’udito e il mio corpo con lo sguardo. 

E in un attimo mi sento commuovere fino agli occhi e non lo posso nascondere e chissà come sono i miei occhi ora… 

E non succede niente. Nessun imbarazzo. È felice. In fondo io sono felice, lui è felice ed è ancora più felice ora. Perché imbarazzo? Sorride ancora di più, tutto fluisce naturalmente, le lacrime come il sorriso.  E davvero non è successo niente, sono solo felice. Cosa c’è di più naturale, di più inevitabile, di questo, in questo momento?  

Non so dove sono. Se esco non so dove è l’est e dove è l’ovest. Se mi cerco nello straccetto di cartina che ho in tasca non mi trovo, forse non ci sono nemmeno, eppure sono ancora in città. Sono da qualche parte, all’ottavo piano. Stesso pianeta, altro emisfero. 


Non mi accorgo nemmeno quando mi abbraccia e riprende a baciarmi. Ormai sono una città arresa. I bastioni sono crollati da un pezzo. La vista, l’udito e tutto il resto, tutti i miei sensi sono presi. 

Mi faccio toccare. Mi faccio eccitare. Quei baci sono buoni. Solo poche ore fa non lo avrei creduto. E invece mi erano piaciuti. E continuano a piacermi. Da quanto tempo li desideravo. Certo che ora fremo di desiderio. Ora può succedere di tutto. 

Segno di vita secondo

Cioè la tua vita è così cattiva che sei venuta fin qua nella speranza che migliori… sonda lui. 

Sì, rispondo, oppure la mia vita è così buona che posso permettermi di muovermi e venire fino a qui, che magari è un bel posto, all’altro capo del mondo, e renderla ancora migliore.

Sì, gli piaceva questo secondo punto di vista. 

Gli stavo spiegando che ero lì solo per pochi giorni e solo per una magia astrologica. Avevo fatto calcoli precisi e scoperto che se avessi trascorso lì il giorno del mio compleanno il mio nuovo anno si sarebbe sviluppato a partire da una nuova nascita sotto i migliori auspici, dentro a una impronta energetica molto favorevole, la più favorevole possibile. 

Lo dicevo anche all’aeroporto quando gli impiegati al check-in chiedevano se partivo per lavoro (no), per turismo (no)… Una magia astrologica. Ah ecco. Meno male che nessuno aveva ancora ricevuto istruzioni circa la sicurezza astrale. Sarei stata un soggetto sospetto. Non ho propriamente l’aspetto del terrorista ma sono effettivamente un soggetto sospetto. 


Ho attraversato a piedi un quartiere, chiesto informazioni, sbagliato strada e andata sempre dritto, e ora mi trovo con lui all’ambulatorio oftalmologico. Grazie a Dio non per me. Seduta nell’ultima fila della sala d’aspetto, con lui a fianco che tiene d’occhio i numeri delle visite, a tratti mi giro e sbircio dalla vetrata. 

A me sembra una strada normale. Un po’ meno grigia di Parigi, un po’ meno elegante. Più o meno… che ne so. Non ho interessi turistici. 

Quando mi ha trovato cercavo un cinema. Cercavo una bella storia. Appena arrivata, ancora sul bus nel tragitto dall’aeroporto verso la città, ero stata colpita da un manifesto “Soy tu karma” (“sono il tuo karma”), una commedia. Sarebbe stato un film carino, a trovarlo. 

Che non avevo interessi turistici glielo dissi subito e la cosa lo sollevò. 

Sì, anche dal mio punto di vista, concordo, che liberazione non dovere andare a visitare questo monumento o quel museo o quel vattelappesca che esiste solo qua, ma davvero… Che liberazione non dovere nulla. 

Insomma l’ambulatorio oftalmologico non era certo in programma. Ma perché no? Mi aveva chiesto se lo volevo accompagnare per delle commissioni. Sicuro! E adesso ero qui a guardare lui e i suoi capelli monumentali, musicali, che passava da una stanza all’altra per misurare quanto ci vedeva. Forse dovevo accompagnarlo a vederci meglio, nella sua vita. Proprio io, randagia e smarrita. Chi meglio di me avrebbe potuto tenergli compagnia nel suo smarrimento.

Non conosco l’esito delle misurazioni. Però intanto a me mi aveva preso. Mi aveva visto. Molto bene. Da non mollarmi. 

I primi discorsi “seri” li facemmo seduti su quelle seggioline. Non c’è dubbio che voleva vederci chiaro. 

Quanti anni hai, mi chiede. Poco più di quaranta, rispondo. Non è per cattiveria ma non li conto più. Avrei potuto mentire, inventarmi una decina meno, ma troppo difficile. 

Sì, dice, sorride.  

Mi chiede i nomi e tiro fuori addirittura il passaporto, che tengo gelosamente sempre appresso come estensione di me, come se il solo averlo mi garantisca di esistere, di avere un posto nel mondo, e di trovare la via di casa.  E insomma quale casa ci sarebbe da dire ma non lo dico. Non lo penso, non penso niente. 

Ma i nomi non ci sono tutti sul passaporto. Gli dico anche quelli del battesimo. Francesca Maria gli piacciono, quelli sì che sono italiani, sono belli. 

Che cosa fai di mestiere, chiede. Spiego che cos’è l’ipnosi regressiva, nello stesso modo arruffato che uso nella mia lingua madre. E poi aggiungo una lista confusa di altre cose che cerco di fare. Dipingo. Canto. Sono un’artista. 

Sei una strega, dice. Conclusione facile. Ma a me suona strano. Però forse ha ragione. Sicuramente ha ragione. 

Porto le persone oltre lo spazio tempo. Porto me oltre il determinismo astrale. Sposto e rimonto. Poi sì, cerco di fare anche cose normali, e non mi riescono. Infatti. 

Chi ha mai detto che una strega sia una persona normale. Del resto, già mi aveva dato della pazza. Del resto anche io pensavo la stessa cosa di lui, che tanto normale non fosse. 

Sei sposata, chiede. No (ci mancherebbe). Hai figli? Noo (ma ci mancherebbe). Però potresti… Sì. Magari un giorno. (Sì, non c’è che dire, sono fuori dal comune spazio-tempo). Sei fidanzata, chiede. No, rispondo. Ma sei proprio single? O…? Ci penso. Perché sono precisa. Mi prendo il tempo per un rapido calcolo di tutti gli uomini con cui ho fatto l’amore negli ultimi tre anni. Precisa e concreta. Zero. Non mezzo di più. Sì, sono proprio single. 

A lui non lo chiedo. Non lo voglio sapere. Però qualcosa devo chiedere. Segni di vita, forza, domande! Chiedo l’età. Una bella età ha, una decina d’anni meno di me. Dice che di solito gliene danno meno. Dico non so, non ho ancora guardato le rughe intorno agli occhi… Però sì, si vede che è l’età giusta, è quella: sei già uomo ma allo stesso tempo sei ancora ragazzo. Sì, risponde, infatti è quella. 

Adesso non ricordo di cos’altro abbiamo parlato. Ero un po’ in imbarazzo. Era un film strano. Ero seduta a fianco a un tizio alto dai grandi capelli scuri con appena qualche filo bianco che mi aveva già dato della pazza e della strega ma era molto interessato al mio stato civile e perfino alla mia fertilità e si stupiva sinceramente che fossi single. Insomma un tipo preciso, a cui sembravo piacere. 

Nonostante il mio riso isterico, amava il mio sorriso, nonostante avessi fatto di tutto per non guardarlo, si era innamorato dei miei occhi. E non sapevo neanche se i suoi occhiali fossero da aggiornare. 

Non era un film francese. Non eravamo in Francia. I due non parlavano sfrenatamente per due ore di fila con brevi intervalli dedicati ad usi linguistici alternativi. E lei era spettinata sì ma prima di fare sesso. Inconcepibile, mai visto in un film francese. Lei, cioè io. Avevo dimenticato a casa il pettine. Nell’altro emisfero terrestre. No, non è un film francese. E mi va anche bene. Altro non sapevo però. 

Sapevo il nome. Patricio entrò ed uscì dai corridoi a destra e a sinistra della sala d’aspetto. 

Mi tornò a prendere. Come una bambina grande, lo seguivo, per mano. Era un bambino grande, più alto di me, più sciolto, più a suo agio di me. 

Mi chiede se ho voglia… proprio quella mattina deve fare quel giro di visite. Deve andare in radiologia… È vicino. Se voglio, lo posso accompagnare. 

No, non ho da fare. Ma sì, certo, lo accompagno. 

E riprendiamo a girare a destra e sinistra e avanti dritto e ancora un po’, per strade che non ho mai visto. Ma sì, è vicino. Entriamo. Saliamo. 

Lo studio radiologico sa di medicina, sa di paura, sa di gente che non vorrebbe essere lì, che passa e va e spera di non tornare, sa di referti pesanti. Chissà se anche il suo pesa. La sala d’aspetto è luminosa e cupa allo stesso tempo. Lui entra. Poi esce. Gli chiedo se va tutto bene. Non era un bel posto. Ma lui sembra che stia bene, leggero, sicuro, come prima… Tutto bene, mi dice. Solo un po’ elettrico. Ride. E fa per darmi la scossa.

Io, sarà la stanchezza, il calo glicemico, sarà l’empatia, mi faccio abbracciare, mi faccio baciare. 

Non oppongo nessuna resistenza. L’ascensore si ferma per riceverci e rimane a bocca aperta davanti ai nostri baci. Ma che potevo fare. Avevamo già camminato vicini vicini, in modi assurdi, ai quali avevo cercato invano di resistere, io mi sentivo ormai già capitolata, con le difese ormai vinte. 

Non era così. Lo capii subito. Di fatto, quasi nello stesso istante, mi stupii contemporaneamente di due cose. 

Prima. Non aveva l’alito cattivo. Non erano baci cattivi. Come avevo fatto a percepire che avesse l’alito cattivo se non era così? Ma sono scema!? 

Seconda. Lui non se l’aspettava. Non solo non lo dava per scontato ma era come una cosa nuova per lui. Fare conoscenza non è una cosa molto strana. Camminare quasi abbracciati neanche, vabbè, buon per lui. Giocare come bambini appena atterrati in un film “Ritorno da chissà quale spazio-tempo” si può fare. Baciarsi no, è roba da grandi, non si è mai visto così. Una ragazza grande, dagli occhi e il sorriso speciali, un po’ pazza e un po’ strega ma così dolce, scesa dal cielo e capitolata tra le sue braccia, intrecciata alle sue labbra. No. Non succede spesso. Non succede. Punto. Non è normale. Appunto.

Era cambiato il suo respiro. Non che prima non respirasse. Non che prima si muovesse troppo velocemente. Adoravo il ritmo di vita, di pensare, parlare, muoversi, che sentivo nella gente da quelle parti, era il ritmo giusto per me. In Europa le persone mi confondono tanto sono veloci a far di conto e di parola, nervose, aggressive, sempre troppo sveglie per me. Nei paesi tropicali mi soporizzo tanto sono lenti e inconcludenti, dissolti nelle loro malinconiche indefinitezze. Va bene, va bene tutto. Ma Buenos Aires va meglio. Il perfetto equilibrio. 

Patricio continuava a camminarmi al fianco. Un poco più discosto di prima. Ma potevo sentire la sua energia ed era completamente cambiata, il respiro più ampio, profondo, a pervadere un corpo nuovo, diverso, un cuore che si affacciava su una cosa nuova, sdrucciolevole e un poco vertiginosa, grande e inaspettata e piena di sole. La sua mano nella mia era un’altra, potevo stringerla in modo diverso, mi rispondeva in modo diverso. Potevo anche stringerla di più. Mi rispondeva di più. Meno parole, una grande comunicazione.  

Non so come e perché ma ci fermammo. 

Non so come mi chiese se avevo paura. 

Certo che ho paura. Ho paura di tutto. (Ho paura di sconosciuti che mi fermano in mezzo alla strada, by the way, por supuesto, of course.) Ma non si riferiva a quello. Io pensavo se era un serial killer o meno, lui non si poneva la questione. Non lo era. Almeno secondo lui. Era solo turbato. Anch’io lo ero. Anche se ero fuori di me, da qualsiasi coordinata psichica, oltre che geografica, nota. No, lui si riferiva a noi. 

Lui dice che non importa, non si può non fare le cose solo perché si ha paura che si rompano… Le cose si rompono sempre, dico io. Ehh fa lui. 

Decisamente fatti uno per l’altro eravamo, Mestizia e Cataclisma al giardino di infanzia. 

Una persa nel mondo a spasso con uno che portava molto bene i suoi deficit visivi e deambulatori. Lui colorato. Io in bianco e nero sovraesposto e spettinato, pantaloni bianchi e maglioncino nero, secondo le migliori scombinazioni, pelle molto bianca, capelli rame al sole, lunghi e ispidi. Lui alto e bello. Io… beh insomma. 

Gli spiegai che io avevo una energia alta (suvvia, strega sì o no? ci sanno pure dei vantaggi.) e allora potevano succedere delle Cose. Era per quello. 

Abbagliati, strizzammo gli occhi al sole e riprendemmo a procedere, leggeri come prima ma pieni di una cosa nuova e io con la testa completamente svitata e svuotata. Mi ero appena ripresa da un viaggio di tre giorni, decomposta e ribaltata, smontata e ricomposta alla bell’e meglio, non più a pezzi ma ancora scardinata, nelle mani di uno sconosciuto. 

Ma dopo tutto, davvero, avevamo scelta? Ne abbiamo mai avuta? Così come eravamo, proprio perché eravamo così, i nostri corpi si sono incontrati. Da quel momento non poterono più lasciarsi.


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