a cura di Daniela Tresconi
Nella «Giornata della memoria» dedicata al ricordo delle vittime dell’Olocausto, abbiamo scelto la lettura di Edith Bruck dal titolo «Il pane perduto» – La nave di Teseo Edizioni , secondo classificato al Premio Strega dello scorso anno.
Un romanzo realista ed autobiografico che ci è piaciuto molto sia per lo stile che per i contenuti.
L’autrice ha scelto di raccontare il suo vissuto nei diversi campi di concentramento senza alcuna morbosità, senza dettagliare particolari disumani o raccapriccianti, le è ben chiaro che nel futuro molti avrebbero avuto difficoltà a credere che tutto ciò potesse essere realmente accaduto.
Come lei anche gli altri compagni di sventura ne erano consapevoli, lo racconta lei stessa in un passaggio di particolare significato:
«Qualcuno di loro diceva, con l’ultimo sguardo,: no, no, no, qualcuno balbettava il proprio nome e l’origine, qualcuno riuscì a dire: Racconta, non ci crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi.»
Edith sopravvive, nonostante tutto, solo per comprendere con assoluta amarezza che quelli come lei sarebbero sempre stati diversi, che l’isolamento e l’abbandono del campo di concentramento non terminava con la reclusione ma proseguiva ancora: con i campi di transito, con lo smistamento, con l’incapacità di essere accettati, con la difficoltà a trovare una terra e una patria che fosse propria, con il dolore di tornare alle proprie case per trovare solo macerie.
«Cosa stava succedendo? Il nostro avanzo di vita non era che un peso, mentre ci aspettavamo un mondo che ci attendesse, che si inginocchiasse.»
Una liberazione vissuta quasi con dolore, scoprendo che gli altri temevano i superstiti come lei, persone che rappresentavano il fallimento dell’umanità, esseri umani che tutti fingevano di non vedere per coprire quello che avevano subito, quello che tutti avevano permesso che accadesse, semplicemente chiudendo porte e finestre durante la terribile «Marcia della morte».
Edith decide di scrivere proprio per non dimenticare, per mettere nero su bianco quello che le è accaduto, per costringere il mondo ad ammettere che tutto ciò è vero.
«Le nostre vere sorelle e fratelli sono quelli dei lager. Gli altri non ci capiscono, pensano che la nostra fame, le nostre sofferenze equivalgano alle loro. Non voglio ascoltarci: è per questo che io parlerò alla carta.»
Alcune considerazioni sullo stile: asciutto, semplice senza mai scadere nel banale, un libro che scorre veloce e che vale assolutamente la pena avere nella propria libreria.
Un modo diverso di affrontare la tematica delicata dell’Olocausto, raccontando la difficoltà di ricominciare, di ripartire, imparando nuovamente a credere nell’umanità.
Edith Bruck sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco, come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l’odissea. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Bruck racconta il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta, infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni. Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio.
Il Pane Perduto
di Edith Burck
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